Con il crollo della curva dei contagi in discesa in molte aree del Paese, si è tornati a fare scuola in presenza, almeno a rotazione. Il sistema della didattica a distanza (dad) è ancora sul tavolo. Cosa accadrà a settembre e quali sono i costi sociali e personali di formarsi attraverso lo schermo di un computer? La prima campagna vaccinale potrebbe concludersi a settembre, in concomitanza con l’inizio di un nuovo anno accademico e di un nuovo autunno. A quel punto, che destino toccherà alla dad?

Le mosse del governo sulla scuola

I governi di Giuseppe Conte prima e quello di unità nazionale guidato da Mario Draghi poi hanno legato a doppio filo il destino della scuola in presenza alla curva epidemiologica.

Nel bilanciamento di due diritti fondanti del sistema costituzionale italiano – quello alla salute e quello allo studio – la scelta di dare priorità alla salute potrebbe essere confermata anche in futuro. Nel frattempo cosa resta di oltre un anno di scuola da remoto? È possibile fare un bilancio dal punto di vista della sostenibilità sociale ed emotiva?

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La dad ha fatto emergere una forte disuguaglianza sociale © Ingimage

“Spesso si sente dire che il periodo che i ragazzi hanno trascorso a casa con la didattica a distanza solo un anno, e quindi questo non può influire troppo sulla vita dei ragazzi. Su questo non sono molto d’accordo: un anno di esperienza per i ragazzi è un tempo molto lungo e molto importante”. A parlare è Marco Vassallo, psicologo scolastico e relazionale che con i ragazzi lavora da anni in Lombardia, una delle regioni che è rimasta più tempo in zona rossa e arancione, durante i mesi più duri della pandemia. Dove nel marzo del 2020 si registrava la metà dei casi di coronavirus in Italia (16.220 su 31.506).

“Non è solo quanto è durato, ma anche cosa ha rappresentato per loro quell’anno. Essere rimasti in casa e non a scuola, non aver potuto sperimentare se stessi in uno spazio altro. Non aver potuto cambiare contesto. Un anno intero in cui tutti i loro ruoli sono stati vissuti all’interno dello stesso spazio. Si sono ritrovati a fare i figli, gli studenti, i fidanzati nello stesso contesto. Per un ragazzo mi permetterei di dire che è tanto, forse troppo”.

Una situazione in cui ad essere coinvolte attivamente sono anche le famiglie. “Sia io che mio marito cerchiamo di sollecitare i nostri figli in vario modo, dal gioco di società alla chiacchierata, cerchiamo di esserci”, racconta una mamma che ha chiesto di restare dell’anonimato. “Noto che i loro interessi sono diminuiti, si sono appiattiti. E poi mio figlio più grande è come se fosse bloccato nelle relazioni, percepisco una mancanza di autostima che prima, invece, c’era”.

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In molti studenti è cresciuto un senso di incertezza e frustrazione © Ingimage

Il costo sociale della dad

In oltre un anno nessuna strategia alternativa – dal potenziamento verticale dei trasporti locali all’investimento in nuovi impianti di filtraggio dell’aria negli edifici scolastici fino all’installazione di termoscanner – è andata a buon fine. Sembra plausibile che, se la curva dei contagi in autunno dovesse tornare a salire, si potrà tornare in dad.

Il costo sociale della didattica a distanza è difficilmente misurabile ma non per questo inesistente. “Spesso – racconta Vassallo – vedo un appiattimento di molti ragazzi sul qui e ora, hanno difficoltà a sganciarsi dal momento attuale per lanciarsi nel futuro. Si sentono come se quest’ingiustizia stesse limitando la loro possibilità di immaginarsi nel futuro”.

Ascolta il podcast State of School, l’impatto emotivo della pandemia

A fine marzo, quando governo e ministro dell’Istruzione hanno stabilito il ritorno alla dad (o alla did come ora viene chiamata: didattica integrata digitale), in 35 città italiane genitori e studenti sono scesi in piazza. La battaglia di chi ha manifestato per la scuola in presenza tocca ambiti che superano il dibattito sulla qualità dell’insegnamento. E che hanno a che fare col rischio di dispersione scolastica, con la crescente disuguaglianza sociale che genera una discriminazione sostanziale tra chi può accedere a infrastrutture e competenze tecnologiche e chi non può.

E ha a che fare anche con la povertà che nella scuola in presenza per decenni è stata lenita in parte dalla possibilità di condividere spazi e relazioni sicure tra i banchi, insieme alla certezza di un pasto alla mensa. E poi, ultimo nella gerarchia del dibattito politico, col costo psicologico e formativo della pandemia su milioni di studenti.

Gli studenti e l’incertezza del domani

“Una difficoltà specifica che stanno affrontando i ragazzi e che affronteranno nei prossimi mesi – aggiunge Vassallo – è legata al timore di non riuscire a immaginarsi nel tempo”. L’incertezza e la frustrazione provocate dal fatto che sono altri a decidere della nostra possibilità di movimento e di relazione “potrebbe avere una ricaduta sulle possibilità che si daranno di esplorare i loro futuri. Molti di loro – aggiunge Vassallo – pensano di aver perso delle esperienze e di non avere gli strumenti per poterle recuperarle, e questo sta creando una forte frustrazione”.

“Tutta questa situazione – ci ha raccontato in forma anonima una ragazza – ha influito molto sul vedere me stessa nel futuro perché non riesco più a farlo. Se l’anno scorso riuscivo a proiettarmi, a sapere quello che volevo più o meno fare, adesso non ci riesco più. A volte ho la sensazione che questa situazione non passerà mai, cosa che ovviamente non è, e che ce la porteremo dietro, che sarà comunque tutto diverso”.

C’è poi un aspetto che secondo Vassallo non andrebbe sottovalutato. “Emozioni come solitudine, tristezza e apatia sono amplificate perché non sono più quelle emozioni proprie della crescita, ma sono stati d’animo condivisi anche dal mondo degli dagli adulti. Sta accadendo una cosa a cui non eravamo preparati: gli adulti non hanno risposte competenti al periodo che stanno vivendo i loro ragazzi. E quindi per i ragazzi è difficile esprimere delle emozioni e capirle perché non hanno nessuno che le rispecchi o le spieghi”.

Un anno di pandemia non è “solo” un anno

L’impatto del lockdown e della dad sui più giovani nel dibattito politico e istituzionale, però, è ancora assente. Sul portale unico dei dati della scuola del ministero dell’Istruzione, progetto nato nel 2015 per fornire trasparenza e libero accesso ai dati sul mondo della scuola, ci sono dati sull’edilizia scolastica, sul personale della scuola, sui servizi di valutazione, sui piani di offerta formativa. Mancano invece dati sull’abbandono scolastico, sul numero esatto di giorni in presenza e in dad per regione, così come studi (anche solo parziali) sull’impatto psicologico della quarantena e della dad. Elementi centrali per identificare costi e benefici sul lungo periodo.

A cercare di riempire questo vuoto di informazioni e riflessione ci pensano da mesi diverse associazioni sul territorio. Secondo un report di Save the children, per esempio, in molte città italiane sono stati persi oltre la metà dei giorni di scuola in presenza. In alcuni capoluoghi, come Bari, per licei e istituti superiori i giorni in aula sono stati meno del 30 per cento.

Per questa rivoluzione che ha sconvolto la scuola italiana (e non solo) non esiste una normativa specifica. L’uso della dad si basa su un decreto legge (il 6 del 2021) sulle misure urgenti di contenimento della pandemia da Covid-19 a cui hanno fatto seguito una serie di note del ministero a partire dal 13 marzo 2020. Come e quanto ricorrere alla dad, inoltre, è dipeso dalle decisioni delle singole amministrazioni locali che, come hanno lamentato molte associazioni nei mesi scorsi, spesso hanno chiuso le scuole decidendo per il passaggio alla didattica a distanza anche a fronte di una curva epidemiologica meno grave rispetto alle indicazioni del governo.

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In molte città italiane sono stati persi oltre la metà dei giorni di scuola in presenza © Ingimage

Il Pnrr e il futuro (digitale?) della scuola

Molto del futuro della scuola dipende anche dal Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza trasmesso dal governo italiano alla Commissione europea e pubblicato online sul sito della presidenza del Consiglio dei ministri lo scorso 5 maggio. Un documento lungo 270 pagine che in buona sostanza dettaglia come saranno spesi i 191,5 miliardi di euro che arriveranno dall’Europa all’Italia per sostenere la ripartenza. A cui si aggiungono 30,6 miliardi del Piano complementare, 26 miliardi per la realizzazione di opere specifiche e 15,5 miliardi del Fondo per lo sviluppo e la coesione.

In questo scenario la scuola si trova nella quarta delle sei missioni in cui si articola il Pnrr, quella relativa all’istruzione e alla ricerca. Prevede investimenti per oltre 30 miliardi di euro suddivisi in Potenziamento dell’offerta dei servizi di istruzione dagli asili nido alle università (19,4 miliardi) e Dalla ricerca all’impresa (11,4 miliardi). Fondi che verranno impiegati, tra l’altro, in progetti relativi ad asili e scuole per l’infanzia, per creare 152mila posti per i bambini fino a tre anni e 76mila per i bambini tra i tre e i sei anni. Ma anche in progetti per la lotta contro l’abbandono scolastico, contrasto alla povertà educativa ed edilizia scolastica, con l’obiettivo di ristrutturare una superficie complessiva di 2,4 milioni di metri quadrati.

Se fare scuola da casa diventasse un caposaldo del sistema dell’istruzione in Italia da qui ai prossimi anni, se diventasse insomma una modalità pari o superiore alla scuola in presenza, nei fatti rappresenterebbe la riforma più radicale che la scuola italiana abbia affrontato negli ultimi cinquanta anni. Dal punto di vista formale potrebbe essere utile un dibattito articolato e non d’emergenza in parlamento. Per dare forma a questa rivoluzione.

Ascolta il podcast State of School, l’impatto emotivo della pandemia