Quando si finisce di leggere L’anima animale, il libro del giornalista Richard Louv, possono succedere due cose: i più fortunati troveranno una spiegazione a ciò che sentono nel proprio cuore fin da quando sono bambini. Gli altri cambieranno la visione che hanno del mondo animale. Rimanere impassibili davanti a questo libro è semplicemente impossibile. Attraverso le storie di incontri tra esseri umani e altre specie, Louv trasporta il lettore in una dimensione parallela in cui agli animali viene ridata l’individualità, la complessità e la giustizia che troppo spesso la nostra società nega loro.

Questo libro è un vero manuale per ritrovare il “sussurro della natura”, che udiamo forte e chiaro da bambini, ma che tendiamo a scordare crescendo, e vincere alcune delle sfide più importanti della nostra epoca.

Lo sguardo di una civetta
L’anima animale, ripercorre le storie di incontri tra esseri umani e animali e offre una via d’uscita da un’era di solitudine © Alexander Sinn/Unsplash

L’anima animale di Richard Louv

Spiegare a parole ciò che si prova quando si interagisce con un animale – domestico o selvatico che sia – non è sempre facile. A volte quel momento va ben oltre ciò che il linguaggio verbale ci consente di comunicare. Riconoscere poi che dagli animali possiamo imparare qualcosa che possa davvero renderci persone migliori è ancora un tabù per la maggior parte della società. Per non parlare di riconoscere loro un’individualità, cosa che viene praticamente sempre negata. Come spiega in L’anima animale, “cercare la propria strada nel labirinto morale delle complicate relazioni con altri animali non è facile. […] Anche se per alcuni il cammino è chiaro come il giorno, la maggior parte di noi procede a tentoni nella penombra”.

Questo perché? Secoli di “evoluzione” ci hanno abituati a vedere il regno animale come qualcosa da sfruttare senza pietà, qualcosa di cui approfittare senza dare niente in cambio. Come se fossero stati creati solo per soddisfare i nostri sempre più insaziabili bisogni. Questo ha dato vita a una serie di conseguenze – tra cui la crisi climatica, la sesta estinzione di massa, il collasso della biodiversità – che oggi non possiamo più ignorare.

Abbiamo contattato Richard Louv per analizzare insieme alcuni dei concetti più importanti che emergono dalle storie raccontate ne L’Anima animale, edito in Italia da Edizioni ambiente, e ciò che è emerso è una riflessione sugli habitat, intesi come luoghi fisici ed emotivi, sulla solitudine che stiamo vivendo come specie e come singoli individui, sul ruolo della pandemia e su cosa dobbiamo imparare per risanare il nostro rapporto con il mondo naturale.

L'occhio di un elefante
Agli animali non viene quasi mai riconosciuta un’individualità © Razkoko3/Pixabay

La solitudine della specie

Uno dei temi chiave de L’anima animale è l’aumento esponenziale della solitudine umana, intesa sia come mancanza di contatti tra esseri umani che come allontanamento della nostra specie dalle altre che popolano la Terra. Gli esseri umani si sentono soli, tra di loro e nel mondo, perché hanno dimenticato come si vive in armonia con altri esseri viventi.

“Persino prima della pandemia, l’isolamento sociale era vicino a fumo e obesità come rischio per la salute. L’aumento della solitudine è causato da molti fattori, ma le sue origini possono essere trovate nella più generale solitudine della specie”, ci ha spiegato Louv. “Vogliamo disperatamente evitare di sentirci soli nell’universo. E non lo siamo, se stiamo attenti. Allo stesso tempo è importante ricordare che non si tratta solo di noi. Gli animali hanno il diritto di esistere anche se non traiamo un beneficio diretto da loro. Nell’etica ambientale è chiamato ‘valore dell’esistenza’. Penso che, come società, dovremmo parlare di più di quei benefici, compresi i modi di assicurarci che il bene sia reciproco, per noi e per gli altri animali”.

Questo allontanamento dai nostri simili e dal resto degli esseri viventi ha causato quella che Louv chiama “sindrome da deficit di natura”. Questo termine è stato utilizzato dal giornalista per la prima volta nel 2005, nel libro L’ultimo bambino nei boschi e “non è una diagnosi medica, ma un termine che può aiutarci a parlare di qualcosa che molti di noi già sentono come vera. La sentiamo come individui, ma anche come specie”, ci scrive. La nostra specie si è allontanata dalle altre urbanizzando, spiega Louv, costruendo barriere come le autostrade, impiegando design urbani che escludono gli elementi naturali. Siamo cresciuti avendo paura degli estranei – umani o animali –, indottrinati da un sistema scolastico che, almeno negli Stati Uniti, sottovaluta il ruolo della natura.

Un lupo ulula
Siamo cresciuti avendo paura degli estranei, umani o animali © Federico Di Dio/Unsplash

L’anima animale e l’habitat del cuore

Il libro però fornisce anche una soluzione o almeno una possibilità per uscire da questa gabbia di solitudine nella quale ci siamo auto-chiusi: tornare all’habitat del cuore. “L’anima animale parla dell’importanza di riconoscere la condivisione che facciamo del nostro habitat. Con la parola ‘habitat’ non intendo solo il mondo fisico, ma mi riferisco anche a un secondo habitat, che è emotivo, sensoriale, relazionale e aggiungerei anche spirituale, una vera connessione tra noi e gli altri animali – ci racconta –. Che sia nella natura selvaggia, in luoghi urbani o in aree rurali, gli incontri che facciamo con gli animali possono produrre stati alterati di consapevolezza. La nostra percezione del tempo, dello spazio e delle misure può cambiare radicalmente durante un breve incontro con un animale selvatico; e i nostri sensi prendono vita – non mi riferisco ai cinque sensi ai quali pensiamo di solito, ma anche altri nove o dieci (alcuni scienziati credono che gli esseri umani abbiano più di 30 sensi, la maggior parte dei quali vengono usati di rado)”.

Penso che la chiave per il futuro della vita sulla Terra risieda negli habitat. Infatti, ce ne sono due: quello fisico, al quale molti di noi devolvono loro stessi per la sua protezione; e quello del cuore, che raramente nutriamo o proteggiamo, in noi stessi e nei nostri bambini, come dovremmo. Se uno di quei due habitat scompare, lo fa anche l’altro.

Richard Louv

Questa connessione può essere nutrita da anni passati insieme a un animale domestico, oppure essere il frutto di un incontro inaspettato con un animale selvatico. “Queste esperienze hanno un impatto profondo su di noi, anche quando non ne siamo a conoscenza o non sappiamo come spiegarle”, sottolinea Louv.

La vera forza di questo libro risiede proprio nel racconto di queste esperienze, nelle storie di persone che hanno vissuto questi momenti e si sono rese conto della loro importanza. Si tratta di veri “momenti di crescita spirituale che hanno accompagnato questi incontri. In quei momenti è impossibile sentirsi soli nel mondo”. Lo stesso Louv racconta il suo momento di illuminazione quando ha incontrato due aquile reali sulla sponda di un lago: “sono diventato consapevole della realtà che esisteva tra loro e me stesso e questa realtà ha una sua potenza. Questa è la realtà della relazione”.

Gli altri animali possono espandere i nostri sensi, insegnarci l’empatia, comunicare con noi in modi che la scienza sta iniziando solo ora a capire.

Richard Louv

Una volpe nella neve
Queste esperienze hanno un impatto profondo su di noi, anche quando non ne siamo a conoscenza o non sappiamo come spiegarle © Pixabay

Antropocene, Ecocene, Simbiocene e il principio di reciprocità

Nel corso delle pagine de L’anima animale, Richard Louv offre anche un’importante riflessione sulla gestione delle risorse e sul principio di reciprocità, un aspetto chiave del libro che potrebbe costituire una svolta nel modo in cui ci rapportiamo al mondo naturale e che descrive così: “Per ogni momento di cura che gli esseri umani ricevono da altre creature, gli esseri umani doneranno un momento uguale di cure a un animale e alla sua specie – scrive –. Per ogni acro di habitat selvatico che prendiamo, preserveremo o creeremo almeno un altro acro di habitat selvatico. Per ogni dollaro che spendiamo per la tecnologia nelle classi, spenderemo almeno un altro dollaro creando delle occasioni per i bambini di connettersi profondamente con un altro animale, pianta o persona. Per ogni giorno di solitudine che passeremo, passeremo almeno un altro giorno in comunione con la vita intorno a noi, o almeno fino a quando la solitudine sarà passata”.

Questo principio si colloca in un quadro più grande di evoluzione che la nostra specie ha fatto negli anni, un quadro che ci vede oggi nell’epoca dell’Antropocene, l’epoca umana. “La nostra relazione classica con la natura spazia dal dominio a quella che chiamiamo stewardship, la gestione etica delle risorse. Il dominio porta alla distruzione. La stewardship è un approccio migliore dal punto di vista etico. Ma il modo in cui viene usata quella parola, implica che gli umani si debbano prendere cura della natura, quando in realtà la natura si prende molto più cura di noi”, ci spiega. “Questa è l’etica di base dell’età geologica corrente che chiamiamo Antropocene – l’era umana che il biologo E.O.Wilson chiama l’’età della solitudine’. Oltre a questo, io la chiamerei anche l’età dell’arroganza. In opposizione, l’eco-teologo americano Thomas Berry, ha parlato di un desiderio di Ecocene, che posiziona tutta l’ecologia, non solo i nostri bisogni quindi, al centro della nostra percezione della natura. Similarmente, l’eco-filosofo australiano Glenn Albrecht ci esorta a guardare verso il Simbiocene, dove viviamo in simbiosi con il resto della natura. Questo è il contesto in cui si colloca il principio di reciprocità, di cui parlo nel libro”.

Miniera di fosforo. Film Antropocene
Miniera di fosforo. Dal docufilm Antropocene, l’epoca umana © Burtynsky

È l’amore che ci salverà dalla crisi climatica

Leggendo le storie riportate in L’anima animale c’è un altro sentimento che emerge cristallino: l’amore. Ognuno dei narratori ha vissuto un momento magico con gli animali che descrive che ha condizionato il resto della sua esistenza. Dal bambino che si addormenta con il suo golden retriever, e quando si sveglia dice alla madre che il suo cuore “è nel cane”; alla piovra che avvolge nei suoi tentacoli un biologo marino che, superato lo spavento iniziale, nuota con lei; fino all’erpetologo che, per più di dieci anni, segue un crotalo nelle sabbie del deserto; per non parlare del ragazzino, affetto da autismo, che frequenta un maneggio e comincia a parlare dicendo “cavallo”. Sono tutte storie d’amore ed è proprio l’amore che avvicina queste persone al mondo animale, che le cura e a sua volta si lascia curare.

“Senza un contatto fisico diretto con il mondo naturale, la conoscenza dei ragazzi dell’ambiente rimane astratta, per la maggior parte, e tendono a vedere un mondo afflitto da problemi troppo grandi per essere risolti.  “Sempre più persone che hanno a cuore l’emergenza climatica o il collasso della biodiversità, fanno proclami scientifici, come dovrebbero. Ma utilizzare solo i dati raramente porta le persone ad agire. Un elemento che manca in questa comunicazione è l’amore, il linguaggio delle relazioni. Cosa succederà alle future generazioni se saranno sempre più disconnesse dalla natura, se i ragazzi non avranno la possibilità di innamorarsi di essa, prima di rendersi conto della perdita?”, ci chiede.

Lo sguardo di un leone
Cosa succederà alle future generazioni se saranno sempre più disconnesse dalla natura, se i ragazzi non avranno la possibilità di innamorarsi di essa, prima di rendersi conto della perdita? © R_Winkelmann/Pixabay

La pandemia ha sottolineato con forza il bisogno di rivedere il nostro rapporto con la natura

Mai come quest’anno il rapporto tra l’essere umano e la natura è finito al centro del dibattito internazionale. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), la trasmissione del coronavirus dagli animali all’essere umano, molto probabilmente attraverso un ospite intermedio, rimane lo scenario più plausibile per spiegare la diffusione della Covid-19. E molti scienziati, divulgatori scientifici e giornalisti sono concordi nel dire che è l’uomo il vero responsabile della pandemia dato che, attraverso la distruzione degli ecosistemi e lo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali, ha avvicinato sempre di più la nostra specie a virus potenzialmente letali.

Anche Louv concorda con questa linea di pensiero: “L’animale più responsabile della pandemia è l’essere umano – ci scrive –, ma gli esseri umani possono anche invertire la rotta e smettere di incolpare sempre la natura. Spero che questo sia un segnale di una maggior esigenza di natura. La pandemia ha evidenziato che la salute dell’essere umano non piò essere protetta o migliorata se non si tutela anche la salute del Pianeta. Come ha detto l’eco-teologo Thomas Berry, ‘un habitat degradato produce umani degradati’. Dobbiamo bilanciare i rischi e i benefici della coesistenza. E il modo per farlo non è lo sterminio, ma la gestione”.

coronavirus orango pandemia avvertimento
L’animale più responsabile della pandemia è l’essere umano © Ulet Ifansasti/Getty Images

Cosa succederà alla natura nel mondo post pandemico?

“I genitori e i decisori politici devono chiedersi: come sarà la connessione tra esseri umani e natura nel mondo post pandemico? Ci stiamo preparando a dovere per massimizzare i benefici e ridurre i pericoli di quella connessione? Cosa servirà per persuadere la nostra specie ad agire contro la crisi climatica, il collasso della biodiversità, la minaccia delle estinzioni di massa e l’eventualità di altre pandemie legate al trattamento degli animali? Ognuno di questi elementi è in relazione con gli altri e non può essere affrontato da solo, come se gli altri non esistessero. Come dicevo prima, fare affidamento solo ai fatti e alla logica non è abbastanza. Abbiamo bisogno almeno di altre due cose per farcela”, ci ha raccontato.

“Il primo elemento è quello che chiamo la speranza immaginaria, cioè la nostra abilità di descrivere il futuro come qualcosa che valga la pena di essere creato, qualcosa che sostituisca la visione post apocalittica alla quale molti sono diventati dipendenti”, spiega Louv. “Martin Luther King ha suggerito più volte che qualsiasi movimento, qualsiasi cultura è destinata a fallire se non riesce a dipingere un futuro che valga la pena di essere vissuto. Il secondo elemento ovviamente è l’amore, un attaccamento profondo ed emotivo alla natura che ci circonda, il riconoscimento che apparteniamo a una famiglia più grande, a qualcosa che valga la pena amare. Oggi abbiamo l’opportunità di fare questi passi, grazie al bisogno di relazioni (con chi amiamo e con la natura) che la pandemia ci ha ricordato”.

Secondo il giornalista, sarà la stessa società a dover creare delle menti ibride, in grado di bilanciare correttamente le proprie competenze e i bisogni del mondo naturale. Questo potrebbe contribuire a creare nuovi posti di lavoro e opportunità di carriera, ma solo se saremo disposti a investire mentalmente, ancora prima che economicamente, nella natura.