La Convenzione di Istanbul, ovvero la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, compie dieci anni l’11 maggio. Nata in seno al Consiglio d’Europa nel 2011, la Convenzione è il trattato internazionale vincolante di più ampia portata per affrontare questa grave forma di violazione dei diritti umani.

I suoi obiettivi sono prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire penalmente i loro aggressori, esortando e monitorando i firmatari ad adeguare le proprie normative prevedendo tutte le nuove fattispecie di reato individuate dalla Convenzione: non solo violenza fisica ma anche quella psicologica e dovuta alle costruzioni sociali.

La Convenzione si propone di conseguire l’obiettivo di tolleranza zero verso violenza di genere e getta le basi per aumentare la sensibilizzazione per rendere più sicura la vita delle donne all’interno e all’esterno dei confini europei. Il trattato è stato infatti ratificato da paesi dell’Unione europea ma anche esterni ad essi, dal momento che il Consiglio d’Europa è un organismo allargato a 47 Stati membri.

Purtroppo, però, la Convenzione sta attraversando una fase piuttosto turbolenta della sua vita: per la prima volta un paese, la Turchia, ne è appena uscita, e altri membri mostrano da tempo segnali di dubbi e ripensamenti, come la Polonia e l’Ungheria.

La Convenzione di Istanbul
La Convenzione di Istanbul è un trattato internazionale vincolante sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica © Thierry Monasse/Getty Images

La storia della Convenzione di Istanbul

Eppure quello firmato l’11 maggio 2011 rimane probabilmente uno dei trattati più impattanti a livello mondiale per il rispetto dei diritti umani, dal punto di vista giuridico, culturale e politico: per la prima volta la violenza sulle donne viene definita come una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione, e si stabilisce che lo Stato che non fa abbastanza per rispondere a situazioni di questo tipo deve essere ritenuto responsabile di questa stessa violenza.

Si tratta di un testo la cui idea parte da lontano, fin dagli anni Novanta, quando il Consiglio d’Europa, un’organizzazione internazionale nata nel 1949 e composta oggi da 47 stati membri anche extraeuropei con lo scopo di promuovere la democrazia, i diritti umani, l’identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa, aveva iniziato a prendere coscienza della portata della questione delle violenze di genere. Alle fine del 2008, poi, il Consiglio aveva creato un task force di esperti per preparare una bozza di convenzione che stabilisse dei criteri da applicare a livello globale per combattere il fenomeno.

Il risultato di questo lavoro fu il trattato, entrato in vigore nel 2014 alla ratifica del decimo paese firmatario: si tratta del primo strumento internazionale vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza, e di prevenire, perseguire ed eliminare la violenza contro le donne e la violenza domestica. La Convenzione istituisce anche un meccanismo di controllo specifico (chiamato Grevio) al fine di garantire l’effettiva attuazione delle sue disposizioni dalle parti.

Quali sono i paesi firmatari del trattato

Nel 2011, i firmatari originali del trattato furono Austria, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Lussemburgo, Montenegro, Portogallo, Slovacchia, Svezia e Turchia. Successivamente l’accordo è stato firmato da 45 paesi in totale, ma ratificato (e dunque realmente entrato in vigore) solo da 19 di questi, tra cui l’Italia nel 2013. Il trattato inoltre è aperto alla ratifica anche dell’Unione Europea, e di paesi che non fanno parte del Consiglio d’Europa ma che a vario titolo hanno partecipato alla stesura del testo, come Stati Uniti, Canada, Kazakistan, Giappone, Messico e Santa Sede.

Cinque cose da sapere sulla Convenzione di Istanbul

1. Cosa sono le 4P della Convenzione

Spesso, quando di parla di sviluppo sostenibile, si parla delle 3P, vale a dire le tre parole chiave ‘people, planet, prosperity’. Ebbene, le P su cui si basa la Convenzione di Istanbul sono addirittura quattro, e sono un’ottima base per comprenderne i termini. La prima è prevenire, ed investe la dimensione culturale del problema: fare in modo di estirpare alle radici i motivi culturali che portano alla violenza di genere, cambiare gli atteggiamenti, i ruoli di genere e gli stereotipi che rendono accettabile la violenza nei confronti delle donne; sensibilizzare l’opinione pubblica sulle diverse forme di violenza e sul loro impatto traumatico; includere nei programmi di insegnamento a ogni livello di istruzione dei materiali pedagogici sul tema dell’uguaglianza di genere; cooperare con le organizzazioni non governative, i mass media e il settore privato per sensibilizzare il vasto pubblico.

La seconda è proteggere le vittime, e riguarda il lato sociale: garantire che le misure adottate pongano un particolare accento sui bisogni e sulla sicurezza delle vittime; istituire servizi speciali di protezione, per fornire sostegno medico e psicologico e consulenza giuridica alle vittime e ai loro figli; istituire case rifugio e centri di accoglienza in numero sufficiente e apposite linee telefoniche gratuite di assistenza, operative 24 ore su 24.

La terza è la p di perseguire, e investe l’aspetto penale della violenza: garantire che essa sia debitamente punita; accertarsi che la cultura, le tradizioni e i costumi, la religione o il cosiddetto “onore” non possano giustificare nessun atto di violenza; garantire che le vittime abbiano accesso a misure di protezione speciali nel corso delle indagini e dei procedimenti giudiziari; garantire che i servizi delle forze dell’ordine incaricati di fare rispettare la legge diano una risposta immediata alle richieste di assistenza.

Infine, l’ultima è quella delle politiche integrate, e va da sé che sia appunto di responsabilità delle istituzioni: garantire che l’insieme delle misure sopra elencate rientrino in un pacchetto di politiche coordinate e globali e offrano una risposta onnicomprensiva alla violenza nei confronti delle donne e alla violenza domestica.

2. È lo strumento che consente un preciso monitoraggio dei femminicidi

Di fatto, prima dell’approvazione del trattato di Istanbul in nessun paese del mondo era mai stato realizzato un censimento annuale dei femminicidi. Solamente nel 2017 l‘Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (e in Italia la Polizia di Stato) hanno iniziato a calcolarli a partire proprio dalla definizione che ne dà la Convenzione, quella di omicidi di donne avvenuti in ambito familiare, per ragioni di genere. Senza una delimitazione precisa di ciò che è femminicidio, non sarebbe stato possibile creare una reale mappatura del fenomeno.

3. Ha introdotto nuove tipologie di reato che prima non erano perseguibili

La Convenzione di Istanbul comprende un elenco dettagliato dei reati di genere che i paesi firmatari si impegnano a contrastare: si tratta di violenza psicologica, atti persecutori e stalking, violenza fisica, violenza sessuale, matrimonio forzato, mutilazioni genitali femminili, aborto forzato e sterilizzazione forzata, molestie sessuali. Alcune di queste erano a tutti gli effetti nuove tipologie di reato non ancora previsti negli ordinamenti di molti paesi, quali le mutilazioni genitali femminili, il matrimonio forzato, gli atti persecutori (stalking), l’aborto forzato e la sterilizzazione forzata.

Gli Stati dovranno pertanto introdurre nei loro ordinamenti nuove e importanti fattispecie di reato che ancora non erano contemplate nei loro sistemi giuridici. A seguito della ratifica della Convenzione, ad esempio, nel 2019 l’Italia ha approvato il cosiddetto Codice rosso, che punisce il revenge porn proprio in quanto violenza psicologica.

4. Perché si chiama Convenzione di Istanbul se Istanbul non c’è

Nel 2011 la Turchia fu il paese più convinto nella promozione del trattato, che infatti fu firmato a Istanbul, ideale ponte tra l’Europea e l’Asia non solo geografico ma anche per i diritti umani. Il 12 marzo 2012 la Turchia è anche stato il primo paese a ratificarlo. Nove anni dopo, nel marzo scorso, sull’onda di una lenta ma progressiva limitazione delle libertà civili, il presidente turco Tayyp Erdogan ha firmato il decreto di revoca dell’adesione della Turchia, spiegando che il trattato “minaccia i diritti della famiglia”.

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Una manifestazione di donne durante l’8 marzo in Turchia. Il 20 marzo 2021 la Turchia ha lasciato la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne dopo essere stata la prima firmataria © Burak Kara/Getty Images

5. Non è stato ancora ratificato da diversi paesi dell’Unione Europea

Se la Turchia è il primo paese a recedere dall’accordo, neanche nella democratica Unione Europea il fronte è così compatto: Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria, Moldavia e le tre Repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania) ad esempio l’hanno firmato ma mai ratificato in questi dieci anni, e lo stesso vale per il Regno Unito, che dall’Ue è uscito solo da pochi mesi.

Guardando appena fuori dai confini europei, invece, neanche l’Ucraina ha mai ratificato, mentre la Russia non l’ha nemmeno sottoscritto.

Cinque falsi miti sulla alla Convenzione di Istanbul

1. È il primo intervento normativo importante a livello internazionale

La Convenzione di Istanbul è sicuramente il primo strumento giuridicamente vincolante a livello internazionale in materia di prevenzione e contrasto alla violenza di genere. Ciò non toglie che abbia dei predecessori importanti: capostipite fu la Cedaw, la Convenzione delle Nazioni Unite del 1979 sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne. Nel 1993 venne approvata poi  la dichiarazione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite sull’eliminazione della violenza contro le donne.

2. È solo un atto formale e di fatto non è vincolante

Non è affatto vero. Innanzitutto perché, come già detto, vincola gli Stati che l’hanno ratificato a uniformare le proprio legislazioni comprendendo, ove mancanti, tutte le tipologie di reato di genere previste dalla convenzione. E poi perché il trattato istituisce un meccanismo di monitoraggio incaricato di verificare l’effettiva applicazione delle sue disposizioni, composto un gruppo indipendente di esperti sull’azione contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica e dal comitato delle parti, un organismo politico composto dai rappresentanti ufficiali degli Stati. Che la Convenzione non sia solo un atto formale lo sa bene l’Italia, che nel 2020 è stata giudicata inadempiente riguardo la tutela delle donne vittime di abusi, sia in termini di prevenzione che in termini di diffusione di centri antiviolenza e risorse a loro disposizione, e di non fornire dati abbastanza trasparenti sulla quantità di violenze commesse.

3. Promuove le cosiddette teorie gender ed è un pericolo per la famiglia

È probabilmente l’accusa più strumentale che viene fatta. La Convenzione di Istanbul è stata la prima a dare una definizione di genere, che comprende i ruoli socialmente costruiti, comportamenti, attività e attributi che una data società ritenga appropriati per le donne e gli uomini. Di fatto è dunque essa stessa a distinguere tra genere maschile e femminile. Il tentativo che è alla sua origine è piuttosto quello di abbattere gli stereotipi legati ai generi, opponendosi ai tentativi di confinare donne e uomini in ruoli tradizionali, limitandone quindi lo sviluppo personale, educativo e professionale e le opportunità di vita in generale; giustificare e mantenere il patriarcato, i rapporti di potere storici degli uomini sulle donne, e gli atteggiamenti sessisti che impediscono l’avanzamento della parità di genere; rifiutare il concetto di diritto delle donne di vivere una vita libera dalla violenza.

4. Condanna solamente la violenza di genere

È vero solo in parte. Naturalmente la convenzione copre alcune forme di violenza che solo le donne possono subire, per esempio l’aborto forzato e le mutilazioni genitali femminili, e altre che le donne subiscono molto più spesso degli uomini a causa delle disparità nei rapporti di potere, di forza fisica e  tra donne e della discriminazione sociale di cui sono oggetto. Tuttavia, anche gli uomini subiscono alcune forme di violenza coperte dalla convenzione, come violenza domestica e matrimonio forzato, sebbene più di rado e spesso in forme meno gravi. La Convenzione incoraggia gli Stati parti ad applicare le sue disposizioni a tutte le vittime di violenza domestica, compresi uomini, bambini e anziani.

5. Il fenomeno della violenza sulle donne ormai è in calo

La ricerca Gender related killing of women and girls effettuata nel 2018 dall’Unodc ha dimostrato che ogni anno nel mondo vengono uccise 87mila donne per motivi di genere. In Italia, uno dei paesi parte della Convenzione con il tasso di femminicidi più bassi, in 25 anni le morti sono diminuite del 44 per cento, passando da un’incidenza di 0,64 ogni 100mila abitanti allo 0,36.

Ma nel 2020 per la prima volta il numero è tornato a crescere: il VII rapporto Eures sul femminicidio infatti ne ha contati 111, mentre nel 2019 erano stati 99. In questo senso, il lockdown cui il coronavirus ha costretto gli italiani per diversi mesi non ha fatto che acuire il problema della violenza tra le mura domestiche, e in particolare quello all’interno della convivenza di coppia.

Una questione di cultura

Il 10 maggio, alla vigilia del decennale, le istituzioni italiane come molti altri paesi aderenti celebreranno la Convenzione con una conferenza organizzata dalla Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio insieme all’Università in Rete contro la violenza di genere, per approfondire il ruolo dell’università nel contrasto alla violenza di genere, con la partecipazione tra gli altri di Simona Lanzoni, vicepresidente del Grevio.

Un modo per sottolineare l’importanza della prevenzione nella tutela dei nostri giovani, delle nostre donne, tramite la cultura, come dice la vicepresidente della Commissione di inchiesta Cinzia Leone: “l’intervento legislativo è senz’altro indispensabile ma bisogna concepire un progetto globale e strutturato da introdurre nelle nostre scuole”. Esattamente quello su cui insiste il trattato: “Di fatto oggi abbiamo una convenzione di Istanbul senza Istanbul, un vero paradosso – conclude la vicepresidente Leone. “Ma è proprio la convenzione che detta le linee guida del nostro lavoro e dobbiamo celebrarla”.